Dopo l’attacco di Trump il Medio Oriente brucia. Si temono ritorsioni
L’ora x scatta giovedì 2 gennaio, quando il presidente statunitense Donald Trump, tra un incontro e l’altro con i suoi collaboratori per l’organizzazione della campagna elettorale per le presidenziali di novembre, viene chiamato a partecipare a una riunione riservata e ristretta. Sono le ore 17.00 quando, come scrive il New York Times citando fonti riservate, Trump “ha preso una delle decisioni più importanti di politica estera della sua presidenza”: dare il via libera definitivo all’attacco aereo che avrebbe ucciso a Baghdad il generale iraniano Qassem Suleimani, uno dei più potenti personaggi del Medio Oriente e nemico giurato degli States. Che cosa si sia detto in questa misteriosa riunione non è dato saperlo, né tanto meno Trump fornisce spiegazioni su questa decisione repentina.
La riunione di giovedì non era certamente la prima in cui si parlava di Suleimani. Nei giorni precedenti la situazione in Iraq era diventata sempre più delicata, e le pressioni nei confronti del presidente americano da parte di consiglieri e militari per far partire l’operazione di guerra erano diventate sempre più incalzanti.
Venerdì 27 dicembre, quindi qualche giorno prima della storica decisione, c’era stato un attacco piuttosto grave a una base militare utilizzata da iracheni e americani a Kirkuk. Una trentina di missili avevano ferito cinque persone e ucciso un interprete statunitense. Era dal 2003, dal tempo dell’invasione americana in Iraq, che non si registravano attacchi cosi violenti ad una base americana. Il governo americano ha subito accusato dell’attacco Kataib Hezbollah, un gruppo militare sciita molto vicino alla Guardie rivoluzionarie iraniane, lo stesso corpo militare a cui apparteneva Suleimani. Un altro fatto decisivo per la decisione di Trump è stato l’assedio dell’ambasciata americana, avvenuto proprio qualche giorno prima dell’inizio dell’anno, da parte di membri delle milizie irachene sciite appoggiate dall’Iran, che erano entrate nella “Green Zone” con il tacito assenso del governo iracheno. Tutto questo come risposta all’attacco missilistico compiuto dagli americani contro Kataib Hezbollah, a sua volta ritorsione per il bombardamento sulla base militare nella periferia di Kirkuk.
E’ bastato questo perché il presidente americano, ancora oggi ossessionato dall’attacco del 2012 al consolato USA di Bengasi, prendesse la decisione di sferrare il colpo mortale. I tempi della decisione non sono chiari, ma sicuramente la cronologia suggerisce lo spazio di tempo intercorso tra l’attacco di fine anno al presidio statunitense e l’uccisione dell’interprete. Mentre secondo la ricostruzione del New York Times i funzionari del dipartimento della Difesa avrebbero offerto a Trump diverse opzioni, tra cui quella dell’uccisione di Suleimani, e che il presidente, sorprendendo tutti, avrebbe deciso esclusivamente per l’eliminazione del generale iraniano. A nulla sono valsi i tentativi di dissuasione operati nei confronti del presidente da parte di Mark. A. Milley, capo di Stato maggiore dell’esercito americano, e Mark Esper, segretario della Difesa. Anche qui, come in tutta questa vicenda, non c’è però nemmeno la certezza che questi tentativi di spostare l’asse della decisione di Trump siano stati effettivamente operati. L’unica certezza, almeno per quanto riguarda la tempistica, sembra darla la ricostruzione del Washington Post che scrive di una riunione avvenuta domenica 29 dicembre tra Trump e i suoi consiglieri nel corso della quale si sarebbe presa la decisione di uccidere Suleimani.
Sempre secondo il Washington Post le motivazioni che avrebbero spinto Trump a dare l’approvazione definitiva all’attacco si possono individuare, in primo luogo, alla mancata risposta da parte degli Stati Uniti agli attacchi sferrati dall’Iran alle navi straniere nel Golfo Persico, fatto a cui era seguito l’abbattimento di un drone americano e un bombardamento a due importanti stabilimenti petroliferi sauditi. Un mancata ritorsione americana, secondo i consiglieri di Trump, avrebbe dato il via libera all’idea che “gli iraniani se la sarebbero cavata sempre”, suggerendo quindi una presunta debolezza. Altro punto è la preoccupazione di Trump di ricevere nuove critiche dall’opinione pubblica interna dopo le contestazioni ricevute per la mancata risposta all’abbattimento del drone. Altro elemento decisivo, e qui ritorna l’ossessione Trumpiana per l’assalto al consolato di Bengasi, è la volontà da parte del presidente americano di dare un segnale forte a tutto il medio oriente. Ricordiamo che in occasione di quell’attacco era stato ucciso l’ambasciatore statunitense Christopher Stevens. Altro elemento importante che avrebbe spinto Trump si potrebbe individuare nel tentativo di ringalluzzire l’opinione pubblica americana, quanto meno quella di fede repubblicana e interventista, considerata la richiesta di impeachment che pende sulla testa del presidente americano.
Altro elemento, ma il governo americano non ha fornito le prove, sarebbe il fatto che gli Stati Uniti sarebbero venuti a conoscenza di una serie di attacchi contro obiettivi militari e diplomatici la cui preparazione e ideazione sarebbe da attribuire a Suleimani. Su questo però è forte lo scetticismo di una parte consistente dell’opinione pubblica e del mondo della stampa.
Senza volere entrare nei dettagli di intelligence per la messa a punto dell’uccisione del generale iraniano, dobbiamo dire che la scelta del governo americano è stata contestata dai Democratici e da altri osservatori internazionali delle vicende politico-belliche.
Quali potrebbero essere le conseguenze di questa azione americana nello scacchiere mondiale? E’ evidente che questo atto ha riacceso il vulcano medio orientale; basti citare la reazione del ministro degli esteri iracheno Esmail Qaani che ha parlato di “atto di terrorismo internazionale”; ed è altrettanto chiaro che l’uccisione di Suleimani è ancora più grave e pericolosa dell’eliminazione di Osama Ben Laden. Sono state durissime le reazioni ufficiali da parte di tanti Paesi, non solo dell’area medio orientale, che ritengono quanto meno improvvida questa scelta di colpire un personaggio così importante, quale era il generale iraniano, per l’equilibrio politico internazionale. Le esigenze di politica interna non devono prevalere sugli equilibri mondiali, già abbastanza fragili e delicati. Adesso il medio oriente brucia, e insieme a lui rischia di prendere fuoco il resto del pianeta.