La paura dei pazienti oncologici: dobbiamo curarci ma temiamo di poter contrarre il COVID19.
I giorni del corona virus hanno stravolto le nostre abitudini e presumibilmente, quando tutto questo sarà finito, potremo guardare con occhi nuovi a ciò che ci circonda, valutare meglio persone, situazioni, relazioni, politica. Ma adesso è il momento dell’emergenza, ci siamo dentro tutti, ma è giusto sottolineare che alcuni di noi ci sono dentro più di altri. Se restare a casa e sospendere le proprie attività quotidiane risulta faticoso, ci sono persone nel nostro Paese che non possono permettersi di farlo – ne abbiamo parlato qui – altri ancora sono costretti a uscire di casa perché sottoposti a cure delicate e irrinunciabili che allo stato attuale, risultano ancora più dure per le ragioni che andremo a spiegare.
Sappiamo bene quanto i virus e il COVID19 nello specifico, possano aggredire quei sistemi immunitari già deboli o indeboliti da patologie pregresse. La preoccupazione è proprio quella di uscire di casa per una seduta di chemioterapia in ospedale, col rischio di ammalarsi di coronavirus a causa delle condizioni in cui versano le nostre strutture sanitarie messe a dura prova dall’emergenza, luoghi in cui i contagi esistono così come i malati di COVID19 e il personale che li cura, strutture nelle quali non sempre i sanitari hanno i DPI così come i pazienti e allo stesso modo la tensione che si può provare, sapendo che chi sta tentando di curarsi potrebbe inconsapevolmente essere contagiato, ma asintomatico.
Infatti il personale sanitario non è stato sottoposto al tampone con misure a tappeto, allo stesso modo di tutti i pazienti oncologici che si recano occasionalmente nelle strutture sanitarie. Tutto questo è paradossale perché stiamo parlando di soggetti più vulnerabili e aggredibili dal virus da un lato e dall’altro di gente che lavora negli ospedali e non può avere la certezza di non essere stata a contatto con persone infette. Diamo voce a una donna di Palermo che ci ha scritto raccontandoci la sua esperienza, rispetteremo la sua privacy ed ometteremo il suo nome, ma riteniamo sia importante raccogliere questo appello e rilanciarlo perché chi ha il potere di agire, agisca e lo faccia celermente.
“Sono una paziente oncologica e ho dovuto rinviare la chemioterapia di un mese, per ragioni di contenimento, durante la progressione della malattia.Sono chiusa in casa da ancor prima del decreto. Probabilmente giorno 30 marzo comincerò il ciclo chemioterapico. Ritengo che sia indispensabile che i sanitari e gli immunodepressi vengano sottoposti al tampone per la diagnosi del Covid 19 in quanto occupiamo spazi comuni, senza potere rispettare le debite distanze e siamo oltretutto soggetti a rischio per noi stessi e potenziale veicolo di contagio dentro e fuori casa nostra, dove oltre ai bambini, ci sono familiari adulti che continuano a lavorare all’esterno.
Se questo non avverrà, tutte le restrizioni adottate fino a ora non avranno senso e i nostri sacrifici e quelli della comunità saranno vanificati. E’ inutile aggiungere che questo controllo andrebbe fatto soprattutto a tutti coloro che lavorano con il pubblico se non a tutti i cittadini, ma personalmente voglio richiamare l’attenzione su una categoria da sempre più soggetta alle infezioni virali e batteriche e alle loro complicanze.
Affrontiamo già un percorso durissimo e dagli esiti incerti, con le nostre speranze, risorse e paure contro un nemico che non è stagionale, non rendeteci ancora più vulnerabili e pure contagiosi. Le misure rigorose adottate dall’Istituto Oncologico di Candiolo che, per evitare le contaminazioni ha individuato sistemi ad hoc quali, ad esempio, l’accesso unico, la misurazione della temperatura con il termoscanner e l’attuazione di dispositivi di protezione individuale per l’accesso ai reparti, a riguardo sono un esempio di civiltà e tutela del malato. Si può fare”.
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Luglio 13, 2023
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