“Spaventati e soli, torniamo al lavoro senza sapere se siamo guariti. E su Facebook nasce il gruppo “Noi Denunceremo”
Squilla il telefono. Ma prima ancora della voce si sente il suono di un’ambulanza. E’ il terribile sottofondo che accompagna da settimane le giornate degli abitanti della Val Seriana. Dall’altro capo del telefono c’è Giusi, un’insegnante palermitana che vive e lavora a Fiorano, comune a 10 km da Albino e 15 km da Alzano, una delle aree della Lombardia più colpite. E’ una delle tante storie che, sommate tra loro, fanno statistica e riassumono la situazione surreale che in tutta la bergamasca si è verificata e che ancora continua ad essere, purtroppo, allarmante. Un virus devastante davanti al quale tanti cittadini sono rimasti soli, chiusi nelle loro case a morire o i “più fortunati”, a tentare di farcela lottando su un letto di ospedale. Senza nessuno, con la vita chiusa dentro un casco respiratorio. Qualcuno quel casco è riuscito a toglierlo e a tornare a casa. Altri, molti altri a casa non ci sono più tornati. I loro corpi attendono il turno per una degna sepoltura in cimiteri lontani dal luogo in cui hanno vissuto, i familiari aspettano con il cuore colmo di rabbia e dolore di poter stringere tra le braccia quell’urna che raccoglie le spoglie di chi hanno amato. E poi il silenzio, rotto ancora da quei suoni, dalle sirene, o dai serpentoni mimetici che sfilano ordinati e tristi trasportando dolore.
Giusi come stai?
“E’ tutto complicato perché i sintomi sono tanti. Spero con tutto il cuore che quello che è successo qui non si verifichi anche al sud, abbiamo visto l’inferno e ancora non è finita. Adesso qui qualcuno sta cominciando a tornare al lavoro, con tutte le preoccupazioni del caso”.
Questo perché sta cominciando a cambiare la percezione delle cose?
“Non proprio. Diciamo che stare fermi tanto tempo è complicato. E quindi piano piano si rientra, spesso perché si deve. Il mio compagno è tornato al lavoro ieri, dopo 10 giorni di chiusura della ditta per cui lavora. Questi giorni verranno decurtati delle ferie arretrate. Lui lavora in uno di quei settori ritenuti indispensabili”
Quando avete cominciato a comprendere la gravita della situazione?
“Quando abbiamo avuto il primo caso ad Alzano, hanno detto che avrebbero chiuso l’ospedale, notizia smentita dopo qualche ora. Abbiamo vissuto una grande confusione, le informazioni sono state frammentarie e poco chiare, credo che chi di dovere non abbia compreso subito la gravità della cosa. Per circa due settimane siamo andati avanti con ambulanze su ambulanze che attraversavano le nostre strade. Un incubo. Io ero a casa perché le scuole sono chiuse e quindi potevo lavorare da casa, il mio compagno invece continuava ad andare regolarmente al lavoro. Stando in casa mi sentivo protetta.
Dopo qualche giorno ricevo un messaggio che mi avvisava che il nostro vicino di casa era morto. Da quel momento abbiamo cominciato a percepire tutto in maniera diversa. Abbiamo chiamato il medico di base che ci ha detto di stare attenti agli ascensori, di utilizzare i guanti e pensare se avevamo avuto contatti con questa persona”.
La comunicazione istituzionale ha funzionato?
“Della Val Seriana si parlava molto poco. Mentre su Facebook montava la polemica con la gente che chiedeva che l’intera valle venisse chiusa facendola diventare zona rossa, le fabbriche continuavano a lavorare. Attendevamo la chiusura, ma non arrivava nessuna comunicazione. Confindustria spingeva perché tutto continuasse a restare aperto, non ci si doveva fermare e anche alcuni politici erano della stessa idea”.
Un ritardo che potrebbe essere stato fatale per molta gente.
“In quei giorni dunque era permesso uscire, le restrizioni erano davvero minime. Domenica siamo scesi al bar sotto casa per fare un aperitivo, è un luogo che funge anche da centro per anziani e parlando con la gente ho cominciato a sentire la conta dei morti, tutti della zona, nomi su nomi, storie su storie. Era la seconda settimana di marzo. Siamo tornati a casa abbastanza scossi. Il giorno dopo abbiamo saputo che il barista aveva sintomi e stava male.
Nella stessa settimana presso la fabbrica dove lavora il mio compagno, 15 operai su 30 avevano riscontrato la febbre. Stavano a casa due o tre giorni pensando di avere una normale influenza e rientravano al lavoro…
Tra mercoledì e giovedì abbiamo cominciato ad avvertire i sintomi anche noi. Forti dolori alle ossa, mal di testa, un’enorme stanchezza, febbre sui 37,2. Abbiamo chiamato il medico di base che ha prescritto una settimana di malattia a lui (io lavoravo già in smart working) senza mai parlare di Covid.
A un certo punto ai sintomi si aggiunge la perdita di gusto e olfatto. Facciamo qualche ricerca e ci rendiamo conto che tutto combaciava con la sintomatologia causata dal virus.
Così abbiamo chiamato il numero verde per raccontare la situazione e capire cosa fare. Ci è stato risposto che i tamponi venivano fatti solo ai casi gravi. Così richiamiamo il medico di base il quale ci risponde che al 99% avevamo il Covid, consigliandoci di stare a casa. Tutto qua”.
Avete chiesto altre volte il tampone?
“No, perché compresa la gravità della situazione abbiamo preferito lasciarlo ad altri, dato che abbiamo avuto dei sintomi lievi rispetto a tanta gente”.
Un gesto nobile, ma che alla fine non darà certezza a nessuno. Chi adesso si ritrova a rientrare al lavoro, ad esempio, non sa se sia ancora positivo. Potenzialmente potrebbero infettare, involontariamente, altre persone.
“Infatti, lo sappiamo. Ma non possiamo fare niente, non siamo messi nelle condizioni di sapere come stiano le cose”.
In tutta la zona bisognerebbe eseguire il tampone a tappeto, è l’unico modo per arginare il più possibile il contagio.
“La penso anch’io così, ma a chi dobbiamo rivolgerci? Un amico medico mi ha detto che posso provare a fare le analisi del sangue e capire da lì se ho avuto il covid e se sono guarita. Questo vorrebbe dire recarsi in ospedale, e sappiamo bene in che condizione siano ora, quindi se non lo hai avuto rischi di prenderlo se sei ancora positiva puoi infettare altri. Altra grandissima fesseria, quella di dover firmare in un’autocertificazione in cui dichiari di non essere positivo. Ma se non hai fatto il tampone, come fai a saperlo? Lo Stato ti costringe a dichiarare il falso, perché non hai gli strumenti per appurare la verità. E loro lo sanno. Che senso ha?”
Un altro grande dramma riguarda le case di riposo dove tantissimi anziani stanno male e molti altri sono morti.
“Infatti il grande pericolo è proprio all’interno delle case di riposo. Tante persone sono morte lì, molti senza tampone e senza un ricovero in ospedale. Ma il pericolo non riguarda soltanto gli ospiti ma anche gli operatori sanitari che lavorano lì, loro escono, hanno delle famiglie, poi tornano al lavoro. Sono più a rischio contagio e di contagiare. Spero solo che tutto questo passi presto, siamo distrutti”.
Dai dati noti ormai a tutti, questo è un ulteriore dramma che la Lombardia (ma non soltanto) sta vivendo in maniera violenta. Si è spenta un’intera generazione, spazzata via in pochi giorni. C’è chi in una settimana ha perso mamma e papà senza poterli salutare, senza poterli assistere durante gli ultimi giorni.
Ma i fatti ci raccontano che ad andarsene non sono soltanto gli anziani o chi ha patologie pregresse, è ovvio che loro siano più vulnerabili, ma nessuno di noi è invincibile, siamo tutti indifesi e a rischio.
I morti censiti, i “numeri ufficiali”, riguardano le persone decedute in ospedale. Ma quanti sono morti a casa? Il numero dei positivi è incalcolabile, così come quello dei morti. Tanta gente è morta a casa senza mai avere un tampone né una diagnosi. Tantissime persone con sintomi Covid19 non hanno avuto e non hanno la possibilità di essere sottoposti a tampone.
Oggi non siamo nella condizione di avere giustizia e approfondire TUTTE le responsabilità. E’ il momento del dolore, della rabbia. E’ il momento di uscire da quest’incubo tutelando la nostra vita con comportamenti responsabili e prudenti.
Domani, passata la piena, le cose saranno diverse.
Oggi muoiono i nostri cari, da soli e spaventati. Se ne vanno senza disturbare, senza un dignitoso addio. La Lombardia e l’Italia tutta, dovranno pretendere di conoscere la verità, che i responsabili, a tutti i livelli, vengano individuati e se hanno sbagliato puniti. Questa tragedia non finirà come le solite cose all’italiana… a “tarallucci e vino”. Non potrà né dovrà essere così.
Ed è anche ciò che chiede il gruppo nato su Facebook a fine marzo “Noi denunceremo”:
“La finalità del gruppo, – scrivono gli amministratori – in questo momento, è raccogliere più testimonianze possibili. Testimonianze VERE, reali, non filtrate dai media o dagli organi di stampa, in modo da far capire a tutti cosa sta succedendo in Italia, specialmente nelle provincie di Bergamo e Brescia.
Al termine di questa emergenza la finalità diventerà quella di avere risposte e giustizia (e ripeto GIUSTIZIA, NON VENDETTA) per tutti i nostri morti. Vogliamo capire se chi aveva il potere di fare qualcosa ha sbagliato, e dove, e chiediamo che risponda delle sue azioni”.
Nella pagina del gruppo, che conta oggi più di trentamila adesioni, sono state raccontate centinaia di storie e tutte quante riguardano la vita di persone che sono morte in queste settimane dopo aver contratto il Covid19. E’ un diario quotidiano di dolore, che domani sarà uno degli strumenti per pretendere verità e dignità. E noi, allora come oggi, saremo al loro fianco.
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Luglio 13, 2023